Inaugurato a Mandrola il nuovo monumento in memoria dei piloti Cademartori e Zanovello

A 51 anni dall'incidente aereo in cui persero la vita due ufficiali di San Damiano si è svolta una partecipata cerimonia davanti al manufatto creato da Nemo Russo. L'omaggio di due Tornado del Sesto Stormo

Cinquantuno anni fa una spessa coltre di neve ricopriva le colline intorno a Mandrola di Rivergaro (Piacenza) ed una fitta nebbia avvolgeva ogni cosa, rendendo poco distinguibili cielo e terra. Ieri, in quello stesso luogo, un caldo ed ammiccante sole ha accolto le tante persone che sono arrivate su quei dolci pendii a cavallo fra la Val Trebbia e la Val Nure per l’inaugurazione del nuovo monumento alla memoria di due piloti dell’Aeronautica Militare Gianni Cademartori e Pier Giorgio Zanovello.
Fu proprio la scarsa visibilità una fra le cause del terribile incidente aereo avvenuto il 14 febbraio 1973 in cui morirono i due ufficiali poco più che ventenni, durante la fase di rientro all’aeroporto di San Damiano.
Grazie all’impegno di un ex sottufficiale dell’Arma Azzurra, Salvatore “Nemo” Russo (leggi qui), il cippo commemorativo è stato spostato dalla sua precedente collocazione su un terreno franoso  nell’attuale posizione e da piccolo altarino si è trasformato in un vero e proprio monumento alla memoria.

Un lavoro partito lo scorso luglio e che ha visto impegnato Nemo affiancato spontaneamente da tanti abitanti di Mandrola. C’è stata anche una sorta di staffetta della memoria con un passaggio di testimone fra Sergio Gioia, il cui terreno per cinquant’anni ha ospitato l’altarino alla memoria di  Cademartori e Zanovello e Marco e Francesca Bessi proprietari del campo dove è stata collocata la nuova struttura.

Del resto gli abitanti di Mandrola sono ormai indissolubilmente legati a questa tragedia aerea. La stessa Francesca Bessi, come raccontava ieri assieme alle zie, era nella pancia della mamma quando i due F104 Starfighter precipitarono ad una manciata di metri dal borgo che la vide nascere solo pochi mesi dopo.

Cesare Bessi invece aveva 17 anni quando i due aerei precipitarono.

«Abbiamo sentito due enormi botti – ha ricordato – che hanno fatto tremare tutta la casa, uno dopo l’altro. Siamo usciti ed i campi erano pieni di pezzi di metallo e c’erano tanti piccoli incendi sparsi. Abbiamo capito che era caduto un aereo. Noi inizialmente pensavamo fosse solo uno. In quel momento non c’era nessuno con un mezzo per poter avvisare le autorità. Sono partito con il motorino e sono andato dai carabinieri. Loro avevano già ricevuto la notizia di due aerei dispersi. Però non sapevano dove fossero caduti. Ho spiegato che erano appena sopra Mandrola e così hanno incominciato a venir su».

Scene, che Bessi ha indelebilmente impresse nella memoria e che ieri ha raccontato con commozione.

Alla cerimonia, aperta dalla “preghiera dell’Aviatore” e dall’alzabandiera oltre agli abitanti del borgo, hanno preso parte numerosi rappresentanti dell’Associazione Arma Aeronautica provenienti da Piacenza, da Fiorenzuola, Fidenza, Treviso, Brescia, Treviglio e da altre province. Presente anche una delegazione dell’associazione alpini ed i carabinieri, con il comandante di stazione.

L’aeronautica militare era rappresentata dal colonnello Luca Giuseppe Vitaliti, comandante del Sesto Stormo di Ghedi, che è anche responsabile per il distaccamento di San Damiano che così ha commentato la celebrazione ai nostri microfoni: «E’ una giornata di memoria, di riconoscenza per il sacrificio in questi due giovani piloti dell’Aeronautica militare, due eroi. Giornata che celebriamo con piacere perché a 51 anni dall’evento è palpabile come siano ancora presenti sul territorio sia il dolore sia la vicinanza e la comprensione dell’altissimo significato di questo sacrificio. Lo dimostra anche il seguito che ha avuto questa cerimonia. Mi preme sottolineare la generosa opera prestata per la realizzazione di questo monumento e la concessione di questa area da parte di alcuni cittadini. Questo è un segno molto apprezzato di vicinanza. E’ doveroso come militari ma anche come cittadini, riconoscere il sacrificio dei piloti e soprattutto stare vicino a chi ancora oggi soffre per questa perdita».
A sottolineare la solennità del momento e quasi a voler ricucire un filo spezzatosi cinquantun anni fa in quei cieli, due Tornado del Sesto Stormo in volo addestrativo, partiti da Ghedi, hanno sorvolato il luogo del monumento.

Grande emozione e commozione anche per il comandante Gianluigi Zanovello, fratello di Pier Giorgio, uno dei due piloti morti nel 1973. All’epoca aveva 16 anni. «Ero stato qui da ragazzo – ci ha raccontato – pochi anni dopo l’incidente. Poi sono venuto tre o quattro anni fa da solo, per vedere dove era. Ho cercato il monumento, ma naturalmente senza sapere esattamente dove fosse collocato ho un po’ camminato per questi campi, cercando di rivivere delle emozioni. Momenti come quello dell’incidente si ricordano come se fosse ieri».

Gianluigi tre anni dopo la tragedia, appena compiuta la maggiore età, decise a sua volta di entrare in Aeronautica, dove rimase per 22 anni, entrando a far parte del gruppo più spettacolare dell’Arma Azzurra, le Frecce Tricolori, di cui divenne anche leader e successivamente comandante. Smessa la divisa militare è stato comandante di aerei civili per la Air Dolomiti (Lufthansa Group) e da alcuni anni lavora come consulente nel settore delle risorse umane insegnando in ambiti diversi dal volo (ad esempio a medici ed infermieri) “technical skills”, cioè capacità extraprofessionali che permettano di affrontare al meglio le emergenze, ponendo rimedio all’errore umano. Ha scritto un libro intitolato “Apprendere dagli errori – Un viaggio nella sicurezza del paziente attraverso storie di eventi avversi”. E’ stato cofondatore di di Umaniversitas Academy.

Per i suoi genitori, dopo la perdita del figlio maggiore, non fu ovviamente semplice accettare la sua scelta di diventare pilota «E’ stata una lotta durra. Penso che i genitori che amano sanno anche sacrificarsi. Per me è difficile comprendere quanto abbiano sofferto per la mia scelta. Lo capisco forse solo adesso, ad una certa età».

Presente ieri anche il generale di Brigata Aerea in pensione Gian Paolo Rao, già comandante del 155° gruppo. Non poteva mancare a questa celebrazione e così è arrivato da Roma, dove risiede facendosi accompagnare dal figlio (anche lui ex pilota). Nonostante abbia ormai abbondantemente passato gli ottanta anni non ha perso il piglio del comandante e ieri ha diretto la cerimonia ufficiale e il successivo evento conviviale, trascinando la “pattuglia” di ex aviatori confluita nel piacentino.

«Qui a San Damiano – ha ricordato il generale Rao – abbiamo vissuto praticamente sempre insieme. Avevamo degli impegni operativi molto pressanti, per cui non eravamo noi che tornavamo dalle famiglie, ma le famiglie che venivano in aeroporto. Si viveva come una specie di comunità. I rapporti che si creano, non solo fra piloti, ma fra piloti e specialisti, piloti ed avieri, ufficiali di complemento ed ufficiali di carriera difficilmente si possono descrivere. Ognuno di noi dipende dall’altro. Io posso essere il miglior pilota del mondo, ma se il mio specialista non mi dà un aeroplano a posto io vado a sbattere.  Se il controllore di torre non fa il suo lavoro come Dio comanda, io non torno a Piacenza.  Così il radarista che mi guida in caso di tempo brutto e che mi fa fare delle procedure che mi portano all’atterraggio. Per cui è un legame che va molto al di fuori dei rapporti normali di lavoro, del grado. E’ un rapporto di fiducia, dall’aviere fino al comandante dello Stormo. E questo è la cosa forse più bella che io ho trovato».

Il generale Rao ha anche offerto un ricordo di uno dei due piloti ventenni morti a Mandrola.

«Quando arrivavano in base i “ragazzini” pensavano di essere arrivati, di essere piloti militari con l’Aquila, di essere al culmine. Invece dovevano rincominciare tutto perché nell’attività operativa ci sono determinate, regole, ci sono necessità, ci vuole la conoscenza del velivolo e tutto il resto. Quando è arrivato Gianni io ero capo ufficio operazioni. I ragazzi io li “bastonavo” un po’. Non erano liberi di scappare, di fare e di decidere. Dovevano imparare a fare quello che gli si diceva. Lui, dopo tre o quattro mesi, andò da mia moglie e le chiese se io ero così “duro” anche a casa mia, come ero con loro. Alla fine però tutti questi ragazzi mi sono sempre stati molto legati. Ci siamo voluti un bene da matti. Erano non dico come miei figli, perché erano più grandi rispetto a loro, ma quasi. Dopo i voli venivano tutti a casa mia a prendersi un bicchiere, a mangiare qualcosa. Era una vita veramente comunitaria, bella, con dei rapporti d’amicizia che, come vedete, durano ancora oggi. C’è chi è venuto da Treviso. Io sono venuto da Roma. C’è tanta gente che si è mossa per ricordare questi ragazzi».

Fra i ragazzi del generale Rao c’era anche un giovanissimo sottufficiale, Salvatore”Nemo” Russo, l’autore del monumento inaugurato ieri. Uomo che sotto una scorza apparentemente ruvida nasconde un gran cuore e che ieri ha cercato di sfuggire a telecamere e fotografi perché per lui l’importante non è l’apparire ma l’aver dato forma alla memoria di suo compagni d’arme.

«Con lui – ci ha affettuosamente spiegato il generale Rao – ho un rapporto particolare perché è un’anima ribelle per natura. E’ un Leonardo da Vinci con una manualità eccezionale. Con noi (in aeronautica ndr) non è stato molto. Io l’ho avuto sotto il mio comando per un anno, poi è rimasto altri due o tre anni e infine se n’è andato fuori. Ha frequentato la scuola di design, d’arte, si è interessato di moda ed è riuscito. E vulcanico nelle sue cose. Ogni tanto lo devo prendere e devo dirgli di fermarsi. La moglie è una signora gentilissima e dolcissima. Le ho detto qualche volta … dovrebbe suonargliele un po’. Anche oggi … sei quello che ha fatto l’opera … vuoi venire in mezzo a noi per la foto! L’ho dovuto obbligare, altrimenti non veniva».

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